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Paese di
longevi, Porto
Venere! Come le
sue vetuste mura
turrite, le
case-fortezza,
le venerande
chiese d’intorno
al Mille che
resistono
fieramente al
tempo ed alla
sferza delle
libecciate. Due
vecchie signore,
dell’antica
famiglia paesana
dei Reboa,
scomparse da
poco, erano
quasi giunte al
traguardo del
secolo. Oggi è
al sommo della
scala, e ne ha
sorpassato
l’ultimo gradino
(di due mesi,
dice
i’ingiallito
registro dei
battesimi della
parrocchia,
redatto
personalmente da
un famoso
arciprete-patriota,
Bonaventura
Fidanza),
l’arzilla,
sempre
sorridente,
sanissima nel
corpo ed ancora
in possesso di
buona mobilità,
signora Maria
Traverso, la
nonnina-centenaria
di Portovenere,
della quale « La
Nazione » si è
già occupata.
Peccato che la
buona,
laboriosissima «
Marò », come la
conobbi in
gioventù, sia
ora così poco
loquace (fra
parentesi, in
mia presenza e
del reverendo
don Beretta,
l’arciprete
visitatore dei
poveri e degli
ammalati, le
figlie e nipoti
riuscirono, con
qualche sforzo,
a farle cantare
una vecchia
canzone...).
Essa, infatti,
avrebbe potuto
dirci qualcosa
del Portovenere
dei suoi tempi,
così diverso —
salvo che
nell’arcaica,
anacronistica
fisionomia
d’insieme — dal
Portovenere
d’oggi.
La popolazione che viveva compatta,
interamente fra
le sue mura e
nella stretta
intimità dei
suoi « carrugi »
genovesi,
manteneva ancora
le
caratteristiche
dell’ormai
scomparsa (o in
via di
scomparire) «
società
patriarcale » ad
economia chiusa.
Dove tutti si
conoscevano,
generalmente con
un sopranome — a
similitudine del
« nome di
battaglia » che
sulle navi della
marina sarda si
dava ai marinai
al posto della
matricola
(Garibaldi era «
Cleombroto ») —
e ve n’erano dei
pittoreschi che
i vecchi ancora
ricordano; dove
tutti avevano un
mestiere, i più
alla navigazione
ed alla pesca —
dal Mesco a Capo
Corvo e nelle
calanche era un
vivaio benefico
di i pesci e
molluschi di
ogni qualità —
altri,
generalmente gli
anziani, al
traffico con la
Palmaria, che fu
sempre nei
secoli il
polmone di
Portovenere. E
non mancavano i
pazienti, tenaci
lavoratori di
questa nostra
impervia terra
ligure per
strapparle quel
poco di
giovevole
ch’essa poteva
dare,
soprattutto il
nostro buon
olio, la grande
medicina dei
nostri antichi
della quale sta
per perdersi
anche il
ricordo...
Sfogliando l’accennata cartapecora
parrocchiale, vi
ho scorti molti
nomi originali
delle più
vetuste famiglie
portoveneresi,
continuatrici di
una comunità
costituitasi in
massima parte
col contributo
di Genova e
della riviera
alla fondazione
della « colonia
lanuensis » del
1113: dei
suddetti e
numerosi
Traverso, eppoi
Canese, Chiesa,
Sturlese,
Bertalà,
Colombo,
Gianardi, Bello,
Reboa, Cidàle,
Frumento, Massa,
Porro,
Bertirotti,
Bastreri, Zembi,
Raviolo, Vigna,
Comiti, Dondèro,
Cozzani ,
Portunato,
Canevello ,
Manfroni,
Zignego,
Nardini, Bosio e
tanti altri
cognomi
dell’anagrafe
portovenerina
che lo spazio mi
vieta di
riprodurre.
Vorrei infine sottolineare, a proposito
della centenaria, un
particolare che,
così a prima
vista, appare in
contrasto con la
naturale
attività dei
portoveneresi e
che forse trova
le sue radici (a
Portovenere,
come alle Grazie
ed al Fezzano)
nell’importanza
cantieristica
ch’ebbero
Portovenere e
gli altri paesi
del golfo negli
otto secoli di
durata della
gloriosa
Repubblica di
San Giorgio.
Negli anni che seguirono al 1866 si aprì al
lavoro
l’Arsenale della
Spezia e, per
limitarmi ai
portoveneresi,
so, e in parte
constatai di
persona, che il
centinaio circa
di essi che vi
furono impiegati
non erano né
tutti manovali,
o marinai
dell’officina
porto, o velai
ed attrezzatori,
ma vi
prevalevano
carpentieri e
congegnatori,
alcuni di questi
ultimi operai di
precisione.
Orbene, in quella società patriarcale a cui
ho accennato, i
matrimoni fra
consanguinei
erano un po’ la
regola:
l’attuale
centenaria
Traverso Maria
va sposa al
cugino Traverso
Lorenzo. Lo
chiamavano « ö
Giggin » in
omaggio al suo
compare Luigi
Raviolo (che a
sua volta aveva
sposato una
Maria Traverso)
un valente
capomastro
genovese venuto
a Porto Venere
da Santa Tecla.
Triste fatalità
dei tempi, il
padre di
Lorenzo, che
naviga sui «
vele quadre »
d’oceano, muore
annegato, e il
figlio va a
lavorare in
Arsenale. Vi
rimane
venticinque anni
e si pensiona
quando è
considerato
congegnatore
provetto. Lo
attirano le
nuove
prospettive
dell’industria
privata. Ed
eccolo con la
moglie (ora
centenaria) ed i
figli, capo
operaio
all’Officina
Ansaldo del molo
Giano a Genova.
I dirigenti se
lo contendono
nell’allestimento
delle navi da
guerra: è
l’epoca delle «
dreadnought » di
concezione del
grande Cuniberti:
la « Dante », la
« Leonardo », la
« Cavour », la «
Duilio ». La
famiglia si è
fatta genovese
ed abita in via
Tolemaide. « Ö
Giggin »,
durante la prima
guerra mondiale,
profonde la sua
opera (e la sua
abilità tecnica)
ancora al
servizio della
marina. E
nell’immediato
dopoguerra
(febbraio 1921)
Maria Traverso,
già provata
dalla crudeltà
del mare nella
perdita del
suocero,
apprende la
scomparsa in
Atlantico di un
fratello:
Giovanni con
altri
portoveneresi
nella tragedia
del « Monte San
Michele »
(comandante
D’Ottone),
perdutosi mentre
trasportava
viveri dal Nord
America
all’Italia.
La nostalgia delle rocce e dei « carrugi »
natii richiama
nel 1924 la
famiglia
Traverso a
Portovenere dove
il suo capo,
vero modello di
lavoratore, la
lascia per
l’eterno riposo
nel 1930, a 67
anni d’età. E
Maria, che
qualcosa ha
assorbito dal
lungo soggiorno
fra i genovesi,
apre a
Portovenere un
negozio di
mercerie. « Cosa
vendeva? » le
chiedo. « Roba
da parme » mi
risponde con
voce un po’
bassa, ma
decisa.
Vi è qualcosa di significativo nella
generale
manifestazione
di benevolente
affettuosità che
Portovenere,
alla vigilia
della Madonna
Bianca, patrona
del paese,
tributa alla sua
vivente
centenaria: una
donna fattiva,
seguendo le orme
di un marito
lavoratore,
altrettanto
operoso, in un
quarantennio di
vedovanza ha
condotto in
porto una
famiglia. Al
vertice della
vita, due figli
e due figlie e
la loro gioiosa
discendenza le
sono
costantemente
intorno e
cercano di farle
comprendere in
ogni modo la
loro venerazione
e gratitudine.
E’ un ritorno
alla sana e
patriarcale vita
paesana di un
tempo? E’ un
monito della
Provvidenza ai
portoveneresi
che non bisogna
attendere inerti
e musulmanamente
il profitto dal
di fuori, ma che
bisogna
procurarselo con
lo sforzo
costante del
proprio lavoro?
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