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« Coloro che
passavano di là,
lasciavano
qualsiasi altra
occupazione per
ammirare la
bellezza della
nuova opera,
lieta per gli
amici e
terribile per i
nemici ».
Così scriveva di Porto Venere l’annalista
genovese Caffaro
(vissuto fra il
1080 e il 1164),
che fu, oltreché
cronista insigne
- descrisse la
prima Crociata
alla quale aveva
partecipato -
più volte
console della
Repubblica,
ambasciatore e
ammiraglio
conquistatore di
Maiorca e di
Almeria in
possesso dei
Mori.
La sua annotazione incisiva sulla nuova
Colonia
Ianuensis
meriterebbe una
collocazione
lapidea accanto
a quella non
meno espressiva,
tolta dal poema
Africa del
Petrarca, che si
legge sul «
castelletto » di
San Pietro... se
qualcuno ponesse
ancor mente, nel
corso attuale
dei tempi, a
questi (pur
necessari)
richiami al
passato.
Essa ci fa pensare, ad ogni modo, e con
orgogliosa
compiacenza, che
qualcosa — direi
anzi molto —
dell’opera
edilizia
ammirata dal
Caffaro più di
otto secoli fa,
resta ancora e
che questo
qualcosa
significa assai
nell’etica, ma
soprattutto
nell’economia,
dell’estrema,
rupestre, ala
Ovest del grande
golfo lunato
della Spezia.
Che una forte percentuale di turisti estivi
e autunnali
venga per terra
e per mare a
Porto Venere col
fine di
scoprire, o di
rivedere, un
paesaggio marino
medievale
pressoché
intatto nella
sua concezione
di base e forse
unico nel
Mediterraneo -
anche per
l’intensa carica
di pittorico
conferitagli
dalla natura che
gli sta
d’intorno - è
cosa evidente,
bastano a
dimostrano le
molte sigle
delle auto
straniere e le
bandiere delle
barche che vi
fanno capo nella
stagione
propizia.
E allora, se così è alla stregua dei fatti,
se è dimostrato
che il complesso
paesistico e vestigiale di
Porto Venere —
il borgo
genovese, in
altre parole —
ha peso
preponderante
nell’attrattiva
turistica in
quanto ne
costituisce il
genuino e
veritiero
manifesto
pubblicitario,
perché si fa
così poco per
mantenerne il
carattere e
l’integrità?
E’ vero che nell’attuale contingenza,
mancano i fondi
per la
conservazione
delle antichità,
dei musei e del
paesaggio, se
tali cose sono
fonte di
proventi
turistici — e
Porto Venere non
ha che questa
risorsa —
qualche
sacrificio
bisogna ben
farlo. Senza
dimenticare che
non sempre si
tratta di nuovi
stanziamenti, a
livello
astronomico, ma
di previdenze
conservatrici
nell’ambito
dell’ordinaria
amministrazione.
Vedasi, ad esempio, il gioiello
paesaggistico
della chiesa di
San Pietro che
ha componenti
architettoniche
ben conservate
di 14 secoli.
Nella stagione
estiva è la meta
pressoché
esclusiva di
fiumane di
turisti e
gitanti che vi
si recano per
l’interesse
archeologico, o
per l’incanto
del panorama
marino che si
gode dalle
superne terrazze
del roccioso
promontorio.
Orbene, si sa da anni che il prezioso
complesso
monumentale è
pericolante: le
libecciate
invernali ne
logorano
sistematicamente
le dolomitiche
fondamenta, e un
ampio squarcio
nella roccia
prelude al
possibile
slittamento di
strati, già
verificatosi in
tre riprese
nell’attigua
Cala dell’Arpaia.
Si parlò in passato di un sopralluogo di
esperti in
geologia e anche
della possibile
costruzione di
scarpate (i
cosiddetti «
pieritti ») di
sostegno. Poi
tutto è caduto
nel silenzio...
A proposito di San Pietro, costituisce un «
pugno
nell’occhio »
come si suol
dire, la fila
degli alti
tralicci (per
l’esattezza tre
dell’ENEL e uno
della marina
militare) che
fanno da
sostegno alle
rispettive linee
elettriche
sospese
attraverso lo
stretto. La
possibile
sostituzione di
queste linee
aeree di già
provata
pericolosità per
il traffico
marino ed aereo,
con cavo
subacqueo è
questione
vessata, posta e
raccomandata già
prima
dell’ultima
guerra. E non
mancano in alto
loco — ed anche
di recente —
precise
assicurazioni.
Il discorso dell’intangibilità del
carattere del
vecchio borgo
sarebbe ancora
lungo: le
continue
sofisticazioni
alle
case-fortezze
sul mare
(profusione di
terrazzi e
terrazzini sui
tetti, tetti
rossi,
avancorpi,
eccetera) il
completo
abbandono del
grande castello
superiore; la
progressiva
degradazione
degli orti,
specie nelle
vicinanze del
castello;
l’incomprensibile
ritardo nei
lavori di
riparazione
della grande
torre alla
spiaggia; le
indispensabili
riparazioni a
certe strutture
della chiesa di
San Lorenzo
corrose dal
tempo (la chiesa
è del 1130
circa) e via
dicendo.
Vorrei terminare - pur sapendo di ripetermi
- con una
considerazione:
la prima spinta
ai restauri del
borgo fu data
nel 1900 da due
illustri amici
di Porto Venere,
i senatori
Giovanni
Capellini e
Camillo Manfroni,
promuovendo
l’interessamento
dell’archeologo
senatore D’Andrade,
allora
sovrintendente
ai monumenti di
Liguria e
Piemonte, e al
D’Andrade si
deve un primo
parziale
restauro di
alcune parti
della chiesa di
San Pietro.
Solo nel primo dopoguerra una élite di
benemeriti -
Ubaldo
Formentini,
Ettore Andrea
Mori, gli
architetti
Nebbia e
Guidugli
(coadiuvati dal
testé scomparso
cavalier Pietro
Raviolo), il
sacerdote
Castellini e
altri - ebbe il
merito di
condurre a
termine,
sorretti dalle
autorità un
programma
preciso di
restauri ai
monumenti di
Porto Venere che
culminò nel
1934, col dare,
fra l’altro, il
volto d’origine
alle vetuste
chiese di San
Pietro e di San
Lorenzo.
Ma nell’ultimo trentennio l’impulso alla
restaurazione e
alla
conservazione
delle cose
antiche di Porto
Venere si è
visibilmente
rallentato, dopo
il periodo aureo
dei lavori
1929-1934. E ciò
malgrado che il
vecchio borgo
conti dei veri
aficionados nel
sovrintendente
architetto
Mazzino — le cui
ricerche
sull’archeologia
medievale della
colonia
ianuensis
sono ben note
agli studiosi —
e nel suo
immediato
coadiutore,
l’architetto
Semino un vero
innamorato (ed
esimio
paesaggista) di
Porto Venere e
della Palmaria.
Ne minore è
l’interesse per
l’integrità
artistica di
Porto Venere
dell’attuale
capo del comune.
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