|
Da un distinto
sportivo della
Spezia che nei
suoi svaghi da
tempo libero
preferisce, al
rombante
motoscafo
d’altura, la
quiete riposante
della barca a
vela, sentii
decantare la
bellezza del
panorama foraneo
delle nostre
isole,
contemplato non
frettolosamente,
dal largo
nell’ora del
tramonto: i
raggi inclinati
del sole si
riflettono a
specchio sugli
strapiombi e
sulle lame
rocciose volte a
ponente e danno
all’intera
barriera
un’intensa
colorazione
giallo-oro che
ha del
fantastico e
dell’irreale: un
quadro degno del
pennello di un
grande pittore
impressionista!
Chissà che a dare tale tinta non concorra,
insieme alla
rifrazione
atmosferica, un
qualche effetto
prodotto dalla
natura speciale
della roccia: la
dolomia non
stratificata (un
carbonato di
calcio e
magnesio) mista
agli strati
sedimentari,
contorti,
rovesciati,
incurvati,
ricchi di
conchiglie
fossili, del
calcare nero e
bianco e del
marmo portòro,
rocce tutte a
struttura
cristallina od
addirittura
saccaroide.
Fu il naturalista Gerolamo Guidoni di
Vernazza — come
dissi in un
precedente
articolo — a
stabilire con
chiarezza la
composizione
geologica delle
isole e dei
monti del nostro
golfo e l’età
degli strati
(misurata in
milioni di anni)
deducendole
dalle specie di
conchiglie
fossili
raccolte. Così,
le ammoniti con
guscio calcareo
e le belemniti
(cefalopodi
simili a seppie)
del periodo
triassico,
nell’era
cosiddetta «
secondaria »
nella quale si
formarono i mari
e gli oceani,
qualcosa come
duecento milioni
d’anni fa... Lo
stesso calcare
marino
fossilifero
delle nostre
isole
costituisce le
famose Tre Cime
di Lavaredo, uno
dei più noti e
pittoreschi
gruppi montuosi
del Cadore (le
Dolomiti)!
Ma, senza dilungarmi più nell’opera
pionieristica
del Guidoni,
vorrei mettere
in rilievo
un’altra sua
ragione di
priorità
relativa ai
terreni
geologici della
Palmaria, quale
risulta da una
già citata
raccolta di
scritti inediti
di un mio avo
paterno.
Di solito, i barcaiuoli di Porto Venere,
nell’accompagnare
turisti e
gitanti alle
grotte, danno a
queste nomi
arbitrari,
alcuni di
recente
coniazione,
salvo per la «
grotta di Byron
» il cui nome
resiste, a
motivo della
storica
traversata del
poeta inglese.
Un nome
abbastanza
azzeccato è
invece quello di
« grotta
vulcanica »
dato, non so da
chi, alla grotta
della Cala
Grande prossima
alle Punte del
Pitone e del Pitonetto ed
alla, ormai
dimenticata, «
grotta dei
Colombi ». Ma
tutti si
domandano:
perché « grotta
vulcanica »?
Invero, il
geologo
Capellini
l’aveva fatta
battezzare «
grotta Lazzaro
Spallanzani » in
onore del grande
naturalista che
sulla fine del
1700 aveva
scelto Porto
Venere per i
suoi studi
stratigrafici e
di biologia
marina, e
sarebbe il caso
di ritornare a
questa
denominazione
della grotta più
vetusta
dell’isola.
Orbene, al Guidoni non era sfuggita
l’anomalia del
terreno, di
natura vulcanica
per l’appunto,
che ricopre
quasi per intero
il pendio,
relativamente
dolce della Cala
Grande: « un
conglomerato —
sono le sue
parole —
dovuto ad
irruzione
plutonica
prodotta da
forze interne,
al disotto di
queste montagne;
è apparente
l’effetto del
fuoco, essendo
il conglomerato
ammucchiato
confusamente sul
terreno
stratificato di
base ».
Nell’anno 1857 La Spezia fu onorata dalla
visita del più
illustre fra i
geologi inglesi,
sir Charles
Lyell, fondatore
della geologia
moderna. Lo
accompagnarono
in varie
escursioni i
giovani
naturalisti
Giacomino Doria
(dell’illustre
casata genovese,
futuro
presidente della
Società
Geografica
Italiana,
pioniere di
scoperte
africane,
discendente di
un ramo
stabilitosi alla
Spezia) e
Giovanni
Capellini (non
ancora
laureato).
Più tardi, il Lyell denominava « rubble
drift » quel
tipo di
sedimento
vulcanico che ha
dato luogo alla
grotta della
Cala Grande.
Come i
visitatori
osservano, è una
specie di
impasto, o
calcestruzzo,
molto simile a
quello prodotto
artificialmente
nelle grandi
costruzioni.
Esso costituisce
proprio il tetto
della grotta ed
in parte le sue
pareti,
differendo del
tutto la caverna
dalle altre
(prodotte da
spaccature degli
strati erose dal
mare, con
stalattiti,
ecc.) che si
aprono nella
dirupata cornice
foranea del
Golfo.
Non si tratta ovviamente dei cosiddetti «
magmi » o lave
vulcaniche,
masse di rocce
fuse
nell’interno
della Terra,
eruttate nelle
ere primarie di
formazione della
crosta
terrestre,
quando la Terra
era ancora priva
dei suoi mari ed
oceani, e lo
dimostra
chiaramente la
presenza degli
accennati strati
calcarei pieni
di conchiglie
fossili. Si
ritiene, per
contro, che
questo « rubble
drift », strano
e durissimo
impasto di
ghiaie e
ciottoli, sia
stato eruttato
da qualche
cratere
occasionale,
sotto la
pressione delle
misteriose forze
plutoniche
agenti
dall’interno, in
epoca geologica
più recente, ma
sempre molti
milioni d’anni
prima della
comparsa
dell’uomo sulla
Terra…
|
|