La sagra di San Venerio al Tino

 

       Sulla motonave « Lerici » della FITRAM. Di buon mattino. Due centinaia di passeggeri dalla Spezia, raccolti al pontile di Portovenere. Filiamo veloci verso le « bocche », destinazione il Tino. Un sole smagliante, già alto sulle Apuane, getta fasci bianchi da TV sulle alte facciate del borgo genovese e ne inonda il superpittorico complesso ancestrale di San Pietro. Dai ponti, la piccola folla ammira estatica.
       Non sono tutti spezzini o del golfo, molti sono « foresti » nuovi al panorama; non sono archeologi o frequentatori di mostre personali; uomini della strada, per lo più gente modesta: vanno al Tino chiamativi dalla fama di San Venerio, o per passare nell’isola dell’anacoreta l’intera giornata. Il loro entusiasmo prorompe quando l’isolotto appare in tutta la sua bellezza, miracolo di verde ancora verginale di fronte ai nudi balzi della Palmaria devastata dagli incendi. Sembra sorto di fresco dal mare. Eppure quanta storia, da quando i monaci portatori del primo cristianesimo orientale fondarono (secolo V) i due oratori dei quali restano solo misteriose rovine vestigiali al Tinetto (di certo unito al Tino in quell’epoca), o da quando vi morì solitario San Venerio il 13 settembre A.D. 630!
       Due suggestive solenni messe vescovili fra le rovine del monastero benedettino di Santa Maria e San Venerio che i signori di Vezzano fecero erigere al Tino nel 1050, al termine della secolare oppressione saracena e normanna venuta dal mare. Più di mille pellegrini si sono alternati nell’odierno anniversario i 966 nell’isola saggiamente preclusa al turismo devastatore per il resto dell’anno. Segno che questa sagra annuale dell’intero golfo, che si sussegue sotto nuova veste e fini più ampi dal 1960 — sempre allietata miracolosamente da tempo smagliante — si è affermata e resiste.
       Forse bisognerebbe mitigare la proibizione, almeno nei mesi estivi; concedere qualcosa di più al libero accesso alla restaurata zona archeologica, previe le garanzie di una ben studiata recinzione e dell’indispensabile guardianaggio. L’isola del Tino, già proprietà privata della ditta — oggi consorzio di proprietari — escavatrice del prezioso marmo portoro (lo storico marmo di Portovenere) fu ceduta gratuitamente, con regolare atto donatorio, al demanio militare marittimo intorno al 1930, con la sola clausola del diritto illimitato all’escavazione suddetta, che la marina si è impegnata a rispettare.
       Allora, come oggi, le necessità della marina militare sono legge indiscutibile per le popolazioni del golfo. Allora, come oggi, la marina militare — che nel golfo ha avuto la sua culla e la sua forza — vi esercita le sue prerogative con mano leggera e rispettosa. Essa è la collaboratrice, direi quasi indispensabile, delle manifestazioni di maggior rilievo. Dobbiamo in gran parte al concorso sempre largo dei mezzi della marina la buona riuscita delle annuali onoranze a San Venerio, il santo della nostra terra.
       Scambiavo queste impressioni con l’amico Luigi Cardinale (valoroso pubblicista fin dai tempi lontani in cui La Spezia, soltanto militare marittima, aveva suoi organi, come « Il Tirreno» ed altri) percorrendo la poetica stradicciola del Tino profumata di resine e d’erbe buone. Le scambiai al ritorno con Amedeo Da Pozzo, il silenzioso cireneo del difficile turismo della provincia, accompagnato da autorevoli personalità di Lerici, di cui Portovenere, Palmaria, Tino costituiscono l’insuperabile quinta, come lo è Capri per Napoli. Si parlò ovviamente, delle nostre bellezze panoramiche, non seconde a nessuno nel nostro mare. Ma anche delle difficoltà (che appaiono talvolta insormontabili) per valorizzarle agli effetti del turismo, nel condominio di interessi in contrasto, che è divenuto il Golfo dei Poeti... E’ affiorata anche la carenza di attrezzature intese a facilitare il turismo nautico.
       D’estate stazionano o sono di passaggio nel golfo tremila e più barche da diporto! Sono primitivi i mezzi di attracco e di rifornimento carburanti, acqua, ecc. Per la mancanza di adatti capannoni di ricovero, nella stagione invernale grossi motoscafi e panfili marciscono nelle limacciose acque delle baie. Ci sarebbe, oltre a tutto, da dar lavoro a molti carpentieri e calafati. Il seno delle Grazie insegni! E affiora anche la discussa questione di Panigaglia, una spina che, secondo alcuni, si vuol ficcare nel cuore del turismo spezzino... Al tramonto, sotto la guida dell’infaticabile arciprete dì Portovenere, don Giovanni Battista Beretta, la preziosa reliquia di San Venerio (antica di 14 secoli) e l’insigne statua lignea dovuta al professor Raggio ritornano con mezzo della marina al paese natio del santo marinaio. A bordo, insieme al clero, una folla di fedeli oranti. Sullo sfondo della chiesa di San Pietro, nel gran piazzale che fu la base del « castrum vetus », l’arce portovenerese del tempo di S. Venerio, monsignor Bertonelli, abate della cattedrale di Santa Maria alla Spezia, celebra la messa vespertina e pronuncia parole ispirate sulla figura del santo portovenerese la cui fama si tramanda nei secoli, emblema soprattutto di una grande, necessaria missione, svolta con spirito di semplicità e di rinuncia.

 
     
     

  

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