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San Venerio: una
lontana nebulosa
dal tenue
contorno
sfuggente e
indeterminato,
ma splendente di
vivida luce nel
suo più compatto
nucleo centrale.
Così ci è
presentato tale
astro nel cielo
stellato dei
Santi dai suoi
pochi agiografi
che trattano a
preferenza dei
molti miracoli,
alcuni
clamorosi, come
la distruzione
del dragone di
Capo Corvo,
leggendaria
materializzazione
della sua
vittoriosa
battaglia contro
l’eresiaco
arianesimo
locale.
Un popolare libretto sulla vita del Santo è
quello scritto
nel 1665 dal
reverendo
Giuliano
Lamorati, un
erudito
arciprete di
Porto Venere,
dove la
celebrazione del
13 settembre
anniversario
della morte
dell’eremita al
Tino nel 630
d.C., fu
costantemente
seguita nei
secoli ed ha ora
una più degna
estensione nel
nuovo titolo di
Patrono del
Golfo conferito
per Bolla
pontificia al
Santo
portovenerese.
L’opuscolo suddetto — non più facile a
trovarsi — ha
anche il pregio
di aver aperto
un problema
assai
interessante
agli archeologi:
quello di
appurare, cioè
la vera
condizione —
come
abitabilità,
preesistenza di
stanziamenti
cristiani,
condizioni di
vita, eccetera —
dell’isolotto
scelto da
Venerio a sede
del suo
eremitaggio.
Non va infatti dimenticato che il monaco
era divenuto
capo della più
antica abbazia
sorta in
Lunigiana,
quella di San
Giovanni alla
Palmaria (dove
si dice fosse
nato), che aveva
larga influenza
nella intera
regione in
Corsica,
costituendo uno
dei centri più
importanti di
cultura
religiosa e
civile nel
territorio del
golfo; egli
godeva la piena
fiducia del
vescovo di Luni,
che soprattutto
se ne avvalse
nella lotta
contro i
focolari della
citata eresia.
Al Tino Venerio,
fuggito agli
onori del mondo,
avrebbe trovato
— secondo il
Lamorati — «
un terreno
coperto da folti
e spessi arbori,
stanza sicura di
ferocissime e
crudelissime
bestie e
velenosi
animali,
epperciò
senz’alcun
vestigio nonché
coltura umana
».
Ora, tutto ciò è apparso in qualche
contrasto con le
vicende del
cosiddetto
monachesimo
orientale, il
cui approdo
nella parte
foranea del
nostro golfo,
attraverso i
piloni delle
isole tirrene, è
stato
sufficientemente
ricostruito
dalla maestria
del compianto
archeologo
professor Ubaldo
Formentini. Un
movimento di
cristianizzazione
che ha lasciato
tracce del suo
passaggio alla
Gorgona e in
altre isole
toscane, al
Tinetto, nella
punta di San
Pietro a «
Portus Veneris »
e alla Palmaria,
non poteva aver
lasciato il Tino
nello stato di
terra vergine e
selvaggia quale
ce lo presenta
il Lamorati,
nella euforica
esaltazione
della virtù
rinunziatrice
del Santo.
Dobbiamo alla azione coordinata della
soprintendenza
ai monumenti
della Liguria,
della
amministrazione
comunale di
Porto Venere
(che
ripetutamente
mise a
disposizione i
suoi « cantieri
di lavoro »)
della marina
militare e della
Pro Insula Tyro
se un po’ più di
luce è stata
fatta e se è
stato dato
assetto più
decoroso a
quella che
vorremmo
chiamare la «
zona
archeologica »
del Tino,
indubbiamente
fra le più
importanti —
anche per
precedenti
storici — della
intera Liguria.
Sono particolarmente interessanti sotto il
profilo
archeologico le
tre distinte
campagne di
scavo condotte
dalla
soprintendenza
nelle estati del
1960, 1961 e
1962 sotto la
direzione
dell’architetto
Leopoldo
Cimaschi (già
noto per gli
analoghi scavi
alla Pieve di S.
Venerio a
Migliarina) che
furono degno
completamento
dei precedenti
restauri del
monastero di
Santa Maria e S.
Venerio del Tino
(rimontante al
1050) e dei
ruderi del
Tinetto (fra il
IV e il V secolo
dell’Era
cristiana)
eseguiti sotto
la direzione
dell’architetto
Trinci della
stessa
soprintendenza.
Lo spazio non ci consente di riassumere,
anche brevemente
le conclusioni
che ne furono
dedotte,
reperibili in
varie
pubblicazioni
degli enti
interessati.
Vorremmo
soltanto
puntualizzare —
nell’imminenza
delle annuali
celebrazioni per
il Santo Eremita
— che in vari
anni di cure e
di lavori
assidui la zona
archeologica del
Tino non è più
la franosa
rovina
descrittaci
nelle lettere di
Lazzaro
Spallanzani, nei
Ricordi di
Giovanni
Capellini, nei
versi di von
Platen, o
riprodotta in
una famosa tela
di Agostino
Fossati. A
nostro parere,
essa
costituisce,
nella bellezza
pittorica
dell’isolotto in
cui è
incastonata, una
delle tappe più
significative
del turismo
spezzino, di
quello nautico
soprattutto,
beninteso di un
turismo serio e
consapevole (non
quello dei
gitanti
incendiari!) del
quale è
meritevole il
Golfo dei Poeti.
A Porto Venere si spendono somme ingenti
per ampliare
l’esistente
porticciolo, non
certo per
assicurare un
miglior ricovero
invernale ai «
gozzi » del
paese, ma
nell’intento di
attrarvi un
maggior numero
di panfili nella
stagione
propizia, il che
è pienamente
giustificato
dalla posizione
avanzata
dell’antichissimo
sorgitore. Ma a
che tanta spesa
se,
parallelamente,
non si provvede
a un miglior
assetto delle
attrattive
turistiche della
zona?
Comprendiamo fra
di esse anche la
parte
archeologica
dell’isola del
Tino. Un turismo
che nel 1966 ha
dato all’Italia
un introito di
912 miliardi di
lire in valuta
estera non può
essere
considerato
tutto di terza
classe! Diamo a
chi lo desidera
la possibilità
di accedere
liberamente
(nella stagione
estiva) al
restaurato
romitorio di San
Venerio, magari
con l’accesso
dal vecchio
embarcadero dei
monaci,
riattabile con
poca spesa, e si
provveda a
isolare più
perfettamente
detta zona dal
resto dell’isola
con un sistema
di recinzione
più perfetto
dell’attuale,
mantenendo,
all’occorrenza
il guadianaggio
già in atto.
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