Per la valorizzazione del Tino

 

       Al Tino più di un secolo fa (1854-57): due giovani spezzini, compagni inseparabili, il neoprofessore Giovanni Capellini, scrutatore di rocce, gloria futura della geologia e paleontologia italiane ed il pittore Agostino Fossati, che immortalò il Golfo nelle sue tele, nelle loro frequenti gite all’isola non mancavano mai una visita al vecchio « chiostro caduto in rovina ». Scriverà più tardi il primo nei suoi ricordi (Zanichelli, Bologna 1914): « Mentre io cercavo fossili. Fossati dipingeva...; contemplava malinconicamente le rovine del monastero ove morì San Venerio... ». Fu forse un quadro suggestivo del grande pittore spezzino a richiamare l’attenzione su quelle macerie, a proposito delle quali un biografo portovenerese di S. Venerio del secolo XVII ebbe a scrivere « che per 300 anni le incursioni saracene avevano infierito anche sui monaci, privandoli d’ogni cosa e in ultimo i sassi addentarono degli stessi edifici, lasciandone appena il tanto da darne memoria ai posteri ».
       Ma ancora molti anni dovevano passare prima che qualcuno si accingesse a riordinare e ad interrogare i vecchi muri dimenticati per quasi cinque secoli, fra un groviglio di sterpi e di frane che nel ripido pendio degradante al mare ne rendevano impraticabile l’accesso. Oggi il miracolo e compiuto grazie all’attenzione rivoltavi dalla Soprintendenza regionale ai Monumenti ed agli sforzi combinati della Marina Militare, del fattivo « Comitato Pro Insula Tyro » e dell’amministrazione comunale di Porto Venere.
       13 settembre 1960: anniversario della morte dei Santo 133O anni fa. Sulle rovine del monastero, perfettamente riordinate e rese accessibili, la messa all’aperto di un cardinale di Santa Romana Chiesa, presente la preziosa reliquia dell’Abate Eremita, assistendovi ammiragli ed altre autorità, archeologi, un folto gruppo di religiosi con alla testa il vescovo della Spezia, erede della tradizione di Luni sotto cui operò Venerius, e soprattutto popolo, popolo venuto da Porto Venere, dalla Spezia, da Lerici e da altri paesi del Golfo ad onorare il Santo marinaio e pescatore, ma che anche i fanalisti considerano loro precursore, in memoria dei roghi che si dice accendesse sulle prominenze dell’isola, nelle notti di pericolo per i naviganti... Folla taciturna, compresa della suggestiva cerimonia di significato altamente spirituale che si svolgeva per la prima volta, dopo i tanti secoli trascorsi da quando il vescovo Lucio di Luni era venuto, dicesi per ispirazione divina, a ricercare la salma abbandonata dell’eremita, dandole solenne sepoltura. Commenti semplici, parchi e misurati delle pie donne accorse dai paesi rivieraschi del Golfo - che forse solo nelle apparenze ha abbandonato la religione - come quello che attribuiva a nuovo miracolo del Santo la serie delle giornate smaglianti di perfetta serenità del cielo, di calma assoluta, e veramente eccezionale del mare!
       Non si possono trarre che buoni auspici da un inizio così fortunato del nuovo culto del Santo del Golfo; ma, cessata l’euforia delle onoranze, non bisogna fermarsi. La « Pro Insula »  limiterà necessariamente la sua attività alla sistemazione della zona monumentale; la sua opera coordinatrice è stata molto efficace e soprattutto ispirata a buon gusto; indirettamente ha contribuito  a salvare il patrimonio forestale dell’isola, al quale soggiaceva lo stesso destino dei boschi della Palmaria. Ma al di fuori della zona sud-est a incespugliamento caratteristico del sottobosco selvaggio, è ancora troppo fitto e pericoloso anche per lo stesso faro e i fanalisti, con le loro famiglie.
       Dal loro canto gli archeologi, con la prosecuzione degli scavi, iniziata, se non erro, nel 1954 insieme a quelli al Tinetto, hanno portato, con la scoperta dei resti di una chiesa a due absidi del VI secolo, un notevole contributo alla storia dei primo monachesimo nel Golfo e qualche sprazzo di luce sulla vita assai nebulosa di San Venerio. Vi è certo dell’esagerazione in quei biografi che ci presentano un abate Venerio ritiratosi a vivere « fra folti e spessi arbori, stanza sicura di ferocissime e crudelissime bestie e velenosi animali, senz’alcun vestigio nonché coltura umana » e del resto il Lamorati (1600) accenna all’esistenza di suoi compagni nell’isola. Vi era dunque al Tino, come al vicino Tinetto un luogo di preghiera, con probabile annesso cenobio, già durante il ritiro del Santo, prima cioè della fondazione (nel 1056, cioè 4 secoli e più dalla sua morte) della chiesa abbaziale della quale esistono rovine. Amiamo quindi figurarcelo non il selvatico anacoreta della leggenda, ma il dotto abate Venerio, tenuto in grande considerazione dai suoi confratelli di Porto Venere e della Palmaria, con i quali era certamente collegato, e dal vescovo di Luni che lo aveva a portata di mano e se ne servì soprattutto nella lotta contro l’insidioso Arianesimo.
       L’opera della « Pro Insula Tyro » è un buon principio per una migliore valorizzazione storica ed artistica del lato Ovest dei Golfo, per cui resta ancora molto da fare, specie alla Palmaria e a Porto Venere. L’esperimento ha dimostrato: 1) che una buona organizzazione, operante sul fulcro di fattori sentimentali che hanno maggior presa sulle masse, contribuisce ad indirizzare il turismo verso forme meno caotiche, e certamente più progredite, di quelle che negli anni trascorsi hanno portata alla quasi completa devastazione dei boschi alla Palmaria; 2) che dove mancano o fanno difetto le iniziative (od i mezzi) locali è assai utile l’intervento del Capoluogo del Golfo, con le sue maggiori possibilità e le influenze che vi sono naturalmente accentrate.

 
     
     

  

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