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« Tu es Petrus...
E su questa
pietra fonderai
la mia chiesa...
I suoi nemici
non prevarranno
» E non hanno
prevalso. Ha
resistito da
venti secoli ai
loro assalti
reiterati. Ed al
logorio del
tempo.
Anche questa chiesetta pittorica di San
Pietro a Porto
Venere è stata
fondata in
secoli lontani
sulla viva
roccia, forse
dallo stesso
Principe degli
Apostoli,
peregrinante
lungo la costa
tirrenica dalla
sua sede di
Roma. Lo afferma
una pia
tradizione
locale, non del
tutto
improbabile, in
quanto comune ad
altre chiese
arcaiche dello
stesso litorale.
Ed è, ad ogni
modo, miracoloso
come questo
tipico gioiello
architettonico,
incastonato su
di un bianco
faraglione
venato di marmo
portoro, battuto
dalle terribili
tempeste che
rendono temuto
il Golfo di
Genova, non meno
del « Golfo
Lione » suo
geografico
vicino, abbia
resistito un
numero così
cospicuo di
secoli alla
furia degli
elementi, dato
che il maggior
danno, del quale
restano tuttora
le vestigia,
l’insigne
monumento lo ha
ricevuto...
dagli uomini!
Chi non ha
trepidato,
infatti, per le
sorti della
piccola chiesa
durante le
furiose
libecciate che
scaricano
tonnellate
d’acqua salsa in
movimento sulle
rocce
sottostanti, con
fragore di
cannonate, e ne
schiaffeggiano
le fragili mura
con raffiche
impetuose
impregnate di
salino, tutta
avvolgendola in
vorticosa nebbia
di umido «
spolverino»?
« Ieri sera — scriveva il grande
Spallanzani il 6
agosto 1783 —
il mare era
grossissimo a
motivo d’un
forte libeccio
spirato ieri. I
marosi, urtando
contro gli
scogli di
S.Pietro e delle
sue vicinanze,
si sollevavano
ad altezza
grandissima con
immenso rumore
(sic) e
producevano
un’acquerugiola
che andava a
bagnare tutto
Portovenere. La
bocca stretta
poi era un bollimento
continuo, un
continuo
alzamento de’
marosi
grossissimi,
ecc. ».
Ma è proprio vero che nessun pericolo
minaccia la
solidità del
monumento,
dimostratosi
fino ad oggi
così resistente
all’assalto,
talvolta
terrificante,
del vento e del
mare? Qualche
allarme non ebbe
a mancare in
passato. Ad
osservarne
attentamente dal
mare il turrito
basamento di
roccia — quello
che da secoli
sostiene l’urto
a perpendicolo
delle colossali
ondate
irrompenti dal
largo — si
scorge una forte
incrinatura
nella sua
compagine, come
se tendesse a
staccare il
grande blocco di
base del
monumento dalla
massa del
faraglione, con
le conseguenze
che è facile
immaginare! Per
vero,
risulterebbe che
la Autorità
preposta, già in
passato si è
preoccupata di
tale minaccia e
che al riguardo
erano state
disposte «spie»
sulla fenditura,
per accertarne
l’eventuale
maggior incrinamento. Se
nessun
provvedimento è
stato preso, si
dovrebbe essere
pertanto
tranquilli al
riguardo. Ci
auguriamo che
tutto si riduca
ad apparenza,
più che a
sostanza, di una
pericolosità che
forse è
immaginaria ed
inconsistente.
Eppure la storia dell’erosione continua del
mare su questa
costa, nel modo
caratteristico
con cui si è
fino ad oggi
manifesta, in
particolare nel
tratto fra la
Arpaia (o di
Byron) e le
isole del Tino e
Tinetto, di
spiccata
formazione
calcarea, quale
si legge nei
mutamenti
fisici, secolari
e più recenti,
intervenuti (il
distacco delle
tre isole dal
costone ovest e
fra di loro, il
formarsi
graduale delle
grotte, i
franamenti
improvvisi di
alcuni
strapiombi) fa
sorgere qualche
perplessità,
avvalorata da
previsioni
piuttosto
catastrofiche,
fatte in suo
pregiato e raro
opuscolo,
dall’illustre
geologo del
golfo, il
compianto
senatore
Capellini.
E’ noto, infatti, il processo, veramente
subdolo, con cui
si svolgono in
natura codesti
franamenti
litoranei. Si
formano, per il
lento logorio
della salsedine,
per l’urto dei
marosi o per
scuotimento
tellurico, delle
incrinature
sulla massa
calcarea dello
strapiombo. In
lento progresso
di tempo vi
penetra l’acqua
marina
sbattutavi dalle
onde, e l’acqua
piovana vi
trascina in
quantità il
circostante
terriccio,
finché una
fetta, talvolta
colossale, di
roccia si stacca
praticamente
dalla compagine
del materiale e
resta in bilico
sul precipizio,
talvolta per
anni. Poi la
gravità, od una
causa qualsiasi,
operano il
resto... Ciò si
legge
chiaramente
nella grande
frana della
«Piana del
Soldato»
avvenuta intorno
al 1894 nei
pressi dell’Arpaia
ed anche nella
frana sotto il
Castelletto
(l’antico «Castrum
Vetus»
pregenovese)
lato est, forse
verificatasi
dopo la visita
di Spallanzani a
Portovenere.
Ma non mancano altre frane, come quella per
slittamento
degli strati
sopra la grotta
di Byron o per
l’azione
perforatrice
delle grotte
stesse, a
ricordare ed
ammonire sulla
possibilità di
tali fenomeni e,
quando
possibile, porvi
qualche riparo.
Ricordo, ad
esempio, che
durante una
violenta
libecciata della
quale fui
spettatore in
mia gioventù il
mare sfondò
dalla grotta
Arpaia,
aprendosi
addirittura un
passaggio sulla
piazza di San
Pietro (ora
Lazzaro
Spallanzani),
ciò che
consigliò la
costruzione del
muraglione di
sbarramento,
tuttora
esistente,
nell’interno
della grotta.
Sarà necessario
disporre
analoghi
rinforzi per la
chiesa di San
Pietro?
Per finire col libeccio, riporterò alcuni brani
di un racconto
di una famosa
libecciata
dell’ottobre
1782, dovuto
all’arciprete
Podestà del
tempo ed
inserito dallo
Spallanzani nei
suoi scritti su
Portovenere: «
Nella notte
dell’11 saltò il
vento a libeccio
che accrebbe a
dismisura la
gonfiezza del
mare:
continuavano ad
infierire il
vento e il mare
nella mattina
del giorno 19
nella quale si
scoprì a ponente
di Portovenere
un bastimento
che faceva ogni
sforzo per
guadagnare la
bocca del Golfo.
Mosso dalla
curiosità mi
portai
sull’«ala»
(posto
prominente sulle
rocce, in parte
ora franato)
per vederlo, non
potendosi senza
bagnarci andare
a S. Pietro. La
spuma del mare,
lo spruzzo che
tutto copriva
come di una
caligine non mi
faceva che
travedere
l’indicatomi
bastimento:
ritornai
indietro a
munirmi di
cannocchiale per
fissarlo meglio.
Potei così
giudicare che la
nave fosse
lontana 4 miglia
da terra: faceva
ogni sforzo per
continuare a
Levante e
lasciarsi dietro
Tiro e Tiretto
(sic) ».
E qui l’arciprete racconta come
improvvisamente
la nave, fra
l’orrore della
folla radunatasi
sull’alto posto
di vedetta, mutò
direzione,
dirigendosi
verso le
«bocchette» di
S. Pietro. «
Giudicai subito
- scriveva il
sacerdote -
che la sua
risoluzione era
quella di un
disperato. Mi
portai
immediatamente
in Chiesa, diedi
un segno con la
campana e fatto
radunare il
popolo e
scoperto il
santuario della
Madonna Bianca,
dissi la Messa,
facendo da tutti
pregare per quei
miseri
naufraganti
».
Fortunatamente, l’audace (o disperata)
manovra del
capitano ebbe
esito felice; ma
dopo momenti
tragici,
descritti con
ricchezza di
particolari nel
racconto,
essendosi la
nave traversata
al vento proprio
all’imboccatura,
tutta bianca di
spume, del
piccolo stretto.
In precedenza un
equipaggio di
arditi
portoveneresi,
preso imbarco «
su d’un
forte e nuovo
liuto (o «loido»)
da pesca »
si era
avvicinato per
quanto le venne
permesso dalla
furia del mare
alla bocca «
e là si mantenne
con una bandiera
spiegata per
indicare al
bastimento la
strada e per
cacciare delle
corde ai
naufraghi, nel
caso che
miseramente
rompessero
».
Episodi come questo, di audaci salvataggi,
o tentativi di
salvataggio, di
barche
pericolanti
«fuori delle
Bocche», con
scopertura della
Madonna, suono
dì campane, ecc
a Portovenere
non erano rari
al tempo della
vela e ricordo
d’aver assistito
nella mia
gioventù ad
alcuni di essi,
a testimonianza
dell’ardimento e
delle qualità
marinaresche di
una popolazione
la quale, a
dispetto delle
più comode
attrattive del
turismo e delle
sue
manifestazioni
trova nel mare
la sua ragione
di vita.
Ed è sintomatico, dando luogo alle migliori
speranze, che il
paese conti oggi
capitani di
lungo corso,
alcuni dei quali
in comando sugli
oceani, in
numero maggiore
che nei giorni
della
navigazione a
vela.
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