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« A Porto Venere
il tempo si è
fermato ». E' un
modo di dire che
sentii più volte
attribuire al
borgo per
affermare la
miracolosa
sopravvivenza
presso a poco
nella foggia
datagli dai
consoli della «
Compagna »
genovese nei
tempi del Caffaro con le
sue alte case
(allora « Case
torri »
prendenti parte
alla difesa sul
fronte del
mare), la cinta
pressoché
intatta di mura,
il grande
castello
superiore e le
due chiese
antichissime,
una delle quali
San Pietro, che
ha fra le sue
pietre i resti
di una chiesa
paleocristiana,
di un famoso
cenobio
bizantino e di
un tempio
pagano,
contribuisce a
dare al panorama
quella nota
inconfondibile
che ne
costituisce
forse la
maggiore
attrattiva.
Ma dire che a Porto Venere il tempo s’era
fermato, poteva
anche avere,
cinquant’anni
fa, significato
di stasi — di
immobilismo come
oggi si suol
dire — nella
valorizzazione
di un tesoro
artistico il
quale (siamo in
pochi a
ricordarlo)
giaceva negletto
e già in parte
deturpato da
abusive
sovrapposizioni,
o dall’uso
improprio che si
era fatto di
talune vestigia
più importanti e
significative
che lo
costituiscono.
Tipico caso della chiesa di San Pietro, che
è indubbiamente
per un insieme
di motivi
storici, ma
soprattutto
panoramici il
monumento
principe di
Porto Venere e
dell’intera
regione ligure,
ma che ha in se
un potenziale
pittorico così
originale da
rendere la punta
rocciosa che lo
sorregge e lo
stretto
sottostante uno
dei quadri
marini più
suggestivi del
Mediterraneo.
Risparmiata a
quanto pare, dal
grande incendio
del 1340, che ne
spazzò via la
parrocchia che
le si aggrappava
sulle rocce e
fra le mura
d’intorno
(l’antico Castrum Vetus) e
soltanto
danneggiata dal
bombardamento
aragonese del
1494, la bella
chiesa in gotico
genovese del
1256-77 fu
devastata
dapprima dalle
milizie
napoleoniche che
ne fecero
bivacco e poi
fortezza contro
la squadra di
Nelson (che nel
1800 bombardò la
Torre Scuola) e
successivamente
dagli
austro-russi.
Pur con diverso
impiego la
nostra marina
militare
continuò ad
utilizzarla
insieme
all’attiguo
Castelletto ed
al piazzale del
teatro fino ai
restauri del
1929-1934.
Di questo periodo veramente aureo
dell’archeologia
e del
rinnovamento
civico di Porto
Venere, è ben
nota la storia,
non possibile
nemmeno a
riassumersi, in
questo breve
richiamo
giornalistico.
Il tempo, che si
era decisamente
fermato, sui
tesori d’arte e
sulla vita
civile del
paese, (oltre a
tutto mancava
l’acqua
potabile) fu
rimesso in moto,
anche se a
ritroso per le
antichità — ma
ciò è necessario
farlo nei luoghi
che hanno una
storia — e tutti
sanno chi ne fu
il motore
propulsore:
Ettore Andrea
Mori! E’ tuttora
il più grande
amico di Porto
Venere, e v’è da
augurarsi che,
nella sua carica
di ispettore
onorario dei
monumenti della
provincia, gli
sia data una
maggiore
autorità dì
vigilanza, e se
occorre di
freno, alle
deviazioni e
storture che
tendono a mutare
irreparabilmente
il carattere
arcaico del
paese.
Perché a Porto Venere il tempo, in tale
materia, si è
nuovamente
fermato e, per
converso, ha
corso e continua
a correre troppo
quando si tratta
di
sofisticazioni!
Il periodo dei
rinnovamenti e
restaurazioni
sopra ricordato
— che ebbe il
suo nume
tutelare, nella
personalità
dell’archeologo
Ubaldo
Formentini di
compianta
memoria — fu un
inizio assai
felice che però
non ebbe
seguito. C’è
ancora molto da
fare e,
purtroppo, da
rifare, per
mantenere al
borgo e al
paesaggio che lo
circonda quel
carattere
tradizionale che
— se ne
convincano il
comune e tutti
coloro che
vivono o
prosperano
sull’industria
del turismo — è
ormai l’unica
fonte di
provento di una
località che ha
volontariamente
rinunciato ad
ogni altra
attività
economica.
Vorrei anche accennare, a proposito di
proverbiale
lentezza nel
risolvere certe
questioni che
riguardano Porto
Venere turistica
ed archeologica,
al grosso
pericolo delle
linee elettriche
che attraversano
a bassa quota le
Bocche di San
Pietro ed alla
stortura
panoramica dei
quattro alti
tralicci
metallici che le
sorreggono,
proprio nel
punto più
delicato del
quadro
suggestivo che
ha per sfondo
San Pietro e
l’immensità del
golfo ligure. Su
ciò mi è
preziosa la
testimonianza
dell’amico
professor Mori,
nell’assicurarmi
che la questione
del passaggio
sottomarino
della linea
allora esistente
era stata già
posta durante la
sua decennale (e
provvida)
amministrazione
del comune e
l’autorità
competente aveva
preso impegno di
risolverla. E’
trascorso quasi
un trentennio e
le due micidiali
terni trifasi
(quella ENEL a
15.000 volt)
continuano a
gravare come
spade di Damocle
sulla
navigazione aereomarittima
nello stretto: i
reiterati
incidenti di
questa estate,
che
miracolosamente
non fecero
vittime, fanno
anche temere che
l’incolumità non
possa essere
assicurata, in
altra fortuita
occasione, ai
numerosi gitanti
e passanti in
genere che nella
buona stagione
si affollano nel
lungo mare e nel
piazzale che
fanno da
terminali alla
storica
penisoletta.
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