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Le
annuali
celebrazioni di
San Venerio
richiamano
l’attenzione del
Golfo sul Tino,
l’« isoletta del
sogno » come la
definirono poeti
ottocentisti di
gran fama, e
così appare
ancora a chi la
osserva dal
mare, con la sua
chioma verde di
pini,
miracolosamente
salvata alle
estive
devastazioni dei
gitanti
distruttori che
hanno fatto
scempio dei
boschi
dell’attigua
Palmaria.
Risulta che dopo
il Mille, al
termine cioè
dell’oppressione
saracena
nell’alto
Tirreno, e Golfo
Ligure in ispecie, quando
fondato
l’attuale
monastero del
Tino e salito
esso a
rinomanza, per
merito
sopratutto dei
Signori di
Vezzano che
dominavano il
lato ovest del
Golfo, erano
stati monaci
benedettini ad
incrementare le
coltivazioni, di
vite in
prevalenza, alla
Palmaria ed
anche in una
discreta zona
del Tino.
Peraltro, viene
naturale di
chiedersi qual
era lo stato
delle isole al
tempo di San
Venerio, in
quella « età dei
Barbari » che va
dalla caduta
dell’impero
romano di
occidente alla
fine del dominio
longobardo in
Italia (476 -
774 d. C.).
I romani, che avevano iniziato nel 23
a.C. la guerra
contro i liguri
e fondata Luni
nel 177 a. C.,
solo nel 155
d.C. erano
riusciti, dopo
cruente
battaglia, a
scacciarli al di
là del Caprione
(l’attuale
costone del Capo
Corvo), per
opera di quel
console Marco
Claudio Marcello
cui si deve
presumibilmente
il nome del
pittorico borgo,
forse il punto
più superbamente
panoramico del
Golfo. Benché
frammentarie
sono numerose le
tracce della
romanizzazione
della Spezia,
intesa,
s’intende come
territorio, e
Portus
Veneris è
già citata quale
tappa obbligata
di navigazione
(remica in quel
tempo) fra Luni
e Sestri
Levante, in
quell’itinerario
marittimo del
161 d. C. che va
sotto il nome
dell’imperatore
Antonino Pio e
che per
Portofino e
Genova
portava lungo la
costa le navi
romane alle Gallie ed all’Iberia.
Quanto a coltivazioni, è rimasta solo
notizia che
Portus Veneris,
con la sua ampia
e sicura baia a
due bocche, una
aperta verso le
vicine ed
impervie Cinque
Terre a l’altra
verso Luni,
ricca, fiorente
e aperta alle
strade romane,
era il mercato
principale dei,
già da allora
rinomati,
prodotti
vinicoli della
regione
suddetta, nonché
di quelli della
Palmaria ed
altre zone
vicine di
terraferma. E’
verosimile che i
resti tuttora
visibili, della
costruzione
romana
identificata dal
compianto
archeologo
Ubaldo
Formentini nei
muri perimetrali
di San Pietro
abbiano
appartenuto
proprio a un
tempio pagano
dedicato a
quella Venere
Ericina che a
Roma aveva il
suo culto a
Porta Collina
quale dea
propiziatrice
della vendemmia,
ed alla quale si
dedicavano
annualmente
apposite feste.
Ciò spiegherebbe
l’origine,
ovviamente
romana, del
toponimo
Portus Veneris,
ed un po’ quella
stessa
dell’arcaico
aggruppamento dì
case, sulla
rocciosa
penisoletta, nel
quale molti
hanno visto
soltanto un
misero villaggio
di pescatori, o
di gente
trasferitasi
dalla vicina
Palmaria: i
lontani
pronipoti di
quei trogloditi
i cui resti (di
diecimila anni
fa) sono stati
trovati nella
grotta dei
Colombi...
Vivente San Venerio, la Palmaria era
indubbiamente
coltivata e ben
popolata — anche
il Santo vi
avrebbe avuto i
suoi natali da
famiglia
gentilizia
lunense — e
forse è solo
leggenda
l’affermazione
che il Tino
fosse una selva
selvaggia «
stanza sicura di
ferocissime e
crudelissime
bestie e
velenosi animali
e perciò
senz’alcun
vestigio nonché
coltura umana »
come afferma uno
dei biografi del
santo cenobita.
E come spiegare,
del resto, la
presenza
nell’attiguo
isolotto del
Tinetto, a breve
distanza da
tanto
selvaticume, dei
resti di due
oratori di
costruzione
giudicata fra il
IV ed il VII
secolo E. C.?
Invece, va sempre più affermandosi
l’ipotesi che al
tempo di San
Venerio Tiro
Maggiore e Tiro
Minore
costituissero
un’unica isola,
come dimostra il
basso fondale
che divide oggi
i due isolotti;
essa costituì,
con Palmaria e
Porto Venere,
una delle ultime
tappe del
monachesimo
orientale che
portò tale
corrente di
cristianizzazione
verso
l’Occidente
attraverso le
isole. Per
quella di
Gorgona ciò
trova
testimonianza in
un accenno di
Rutilio
Namaziano
riferibile
all’anno 416 a
proposito dei
monaci «
Lucifughi »; per
il monastero di
San Pietro a
Portus Veneris —
coevo della
costruzione al
Tinetto — nelle
due famose
lettere del
pontefice San
Gregorio Magno
datate l’anno
594.
Non si toglie nulla all’ascetismo ed
alla santità del
Patrono del
Golfo, nel
considerarne la
figura sotto un
aspetto più
umano di quello
tramandatoci
dalla leggenda «
senza stanza,
senza letto,
senza pane,
senza qualunque
umano ristoro,
viveva al Tino
mangiando erbe
crude e frutti
del bosco che
servivano agli
animali ». Non
può essere
questa la
personalità di
colui che il
Lamorati ci
presenta il più
perfetto fra i
venerabili padri
del suo
monastero « che
vollero abbate,
padre, maestro e
guida degli
altri » e che i
vescovi di Luni
vollero
impiegare nelle
difficili
missioni di
combattere
l’arianesimo e
perseguirlo
nella stessa
Corsica.
Fu della statura spirituale dei
grandi fondatori
del cenobitismo
orientale,
Sant’Antonio
Abate e San
Pacomio (le cui
ossa sono
conservate in
San Lorenzo di
Porto Venere);
ultimo anello
della catena del
monachesimo
insulare
tirrenico, fu
anche l’ultimo
sprazzo di
fulgida luce
cristiana col
quale si
chiudeva tale
movimento,
ripreso più
tardi (fine
dell’VIII
secolo) da San
Benedetto, ma
sotto altri
aspetti. Moriva
nel 632 (due
anni dopo San
Venerio)
Maometto,
fondatore
dell’Islamismo,
e i Califfi,
suoi successori,
si aprivano la
via alla
conquista del
Mediterraneo.
Sui cenobi e le
altre
istituzioni
religiose del
Tirreno e del
nostro golfo
scendeva la
notte, fitta di
tenebre, di
abbandono e di
paurose
distruzioni,
fino alla grande
ripresa operata
dalle
repubbliche
marinare,
sostenute dai
pontefici e dai
re di Francia,
intorno al
Mille.
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