Come Portovenere salvò Garibaldi dallo Spielberg

 

      

       L’amministrazione comunale di Porto Venere ha voluto dare, ad unanimità consiliare, una più degna collocazione alla vecchia lapide che ricorda il fortunoso approdo di Giuseppe Garibaldi presso la «Casetta» della Sanità, il mattino del 5 settembre 1849. La Casetta è scomparsa, ed anche l’antichissimo borgo non è più quello (qui riprodotto da una stampa dell’epoca) che si presentò agli occhi del fuggiasco e del suo compagno di battaglie Leggero (in realtà Giovanni Battista Culiolo della Maddalena).
       Tutti i biografi dell’eroe (ultimo Indro Montanelli) hanno dato il risalto che gli compete all’approdo di Garibaldi « in questa prima libera terra » — come afferma la lapide — perché, l’unità d’Italia avrebbe seguito tutt’altra via (o sarebbe avvenuta con grande ritardo) se il futuro comandante dei Cacciatori delle Alpi, eppoi duce dei Mille, fosse caduto nelle mani della polizia austriaca, che lo aveva braccato durante l’intero trafugamento, fino all’imbarco a Follonica sulla Madonna dell’Arena del santerenzino Paolo Azzarini. Ma anche nella traversata marina, la nave a vapore Il Giglio della flotta granducale toscana era uscita da Livorno per catturarli.
       Se ciò fosse avvenuto — e fu l’abilità manovriera di Garibaldi a evitarlo — questi non avrebbe avuto altra sorte che lo Spielberg, se non proprio il capestro, dato il precedente, fallito tentativo del luglio, di accorrere con i bragozzi adriatici in aiuto ai rivoltosi di Venezia.
       Forse i giovani portoveneresi, o i turisti che meglio leggeranno la lapide nella giusta posizione dello storico sbarco, non disdegneranno di conoscere qualcosa dei suoi precedenti. L’idea di ricordare l’avvenimento sul marmo era sorta in seno alla locale società di mutuo soccorso che si fregiava del motto « Istruzione e lavoro »; ma, sebbene l’iscrizione fosse stata dettata (dal medico-patriota che aveva ospitato l’Eroe nella casa del « carrugio » che ha attualmente il numero civico 25) non se n’era fatto nulla.
       Fu nell’agosto del 1922 il presidente di detta società, il compianto cavalier Pietro Raviolo, a riesumarla ed, auspice il sindaco del comune del tempo, ammiraglio della riserva Ernesto Solari, la lapide fu posta in loco.
       Ricordo che la cerimonia, rallegrata dall’intervento della allora compatta banda musicale della marina, fu anche la occasione di un variopinto raduno di tutti i superstiti garibaldini dei golfo, ed enti che dell’idea risorgimentale facevano ancora la loro insegna. Primi, naturalmente, i compaesani degli Azzarini. Questi erano in tre, nella barca che raccolse Garibaldi e il fido Leggèro, nel golfo di Scarlino: Paolo, il capobarca, Giosafatte il vecchio padre e Flavio il nipote. Più i marinai Lupi G. Batta, santerenzino e Locori Remigio, di Pitelli.
       Scrive Montanelli che durante la navigazione passeggeri ed equipaggio non si svestirono mai e che al momento dello sbarco, Garibaldi regalò all’equipaggio uno zecchino d’oro; ma Azzarini rifiutò, preferendo un attestato autografo dell’eroe.
       Ai portoveneresi toccò poi l’onore di trasportare i fuggiaschi, per via di mare alla Spezia, dove altri patrioti li avviarono a Genova attraverso la strada del Bracco. Il gozzo era agli ordini del padrone Zembi Andrea, con i rematori Frumento Lorenzo e Bastreri Gaetano.

 
     
     

  

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