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A chi approda al
golfo della
Spezia
costeggiando la
Riviera di
Levante, non può
sfuggire il
carattere
diverso che
assume il
litorale non
appena superato
il roccioso
isolotto col
quale termina
praticamente
l’industre
regione delle
Cinque Terre;
detto il Ferale,
a ricordo della
morte trovatavi
in servizio,
precipitando
dalla vetta, dal
tenente di
vascello
Garavoglia, un
valente
idrografo che
compieva lavori
geodetici per
conto del grande
Magnaghi,
fondatore della
nuova scuola
idrografica
italiana.
D’un subito, il paesaggio si fa più
orrido, con
strapiombi in
calcare
dolomitico,
bianco e nero,
venato del
prezioso
«portoro».
Dicesi che subito dopo il 1800
Napoleone I,
ormai dominatore
dell’intera
Liguria,
portatosi a
cavallo sul più
alto di quei
monti, formanti
da ovest un
baluardo di
roccia al Golfo
sottostante,
decidesse
all’istante la
creazione del
grande arsenale
fortificato
dell’Italia, a
suo modo
unificata, «che
sarà potenza
marittima, o non
sarà» secondo la
nota asserzione
a lui stesso
attribuita...
Prima del Gran Corso però, i Romani,
eppoi i
Genovesi,
avevano
intravvisto, la
stessa funzione
di base navale
nella zona più
foranea del
magnifico Golfo,
a Portus
Veneris, oggi
Porto Venere, il
cui nome
comparisce nella
storia per la
prima volta nel
205 a.C. a
motivo dello
scempio fattone
da Annone
cartaginese.
Quando Genova, dopo la mirabile sua
rinascita
marittima
intorno all’anno 1000, che
le permise di
concorrere alla
cacciata degli
Arabi dal
Tirreno ed alle
operazioni
navali della
Prima Crociata,
volse lo sguardo
alle cose di
Liguria e del
suo mare, alla
Compagna,
che l’aveva
eretta a libero
Comune, apparve
indispensabile
stabilire una
base di manovra
avanzata a Porto
Venere, nel
duplice intento
di fronteggiare
le ambizioni
espansioniste di
Pisa in Corsica
e Sardegna, dove
Genova aveva
stabilito
fondachi ed
interessi
commerciali.
Fra marinai è facile intendersi. Così
i Signori di
Vezzano Magra,
noti per le loro
navigazioni
tirreniche, che
detenevano l’Oppidum
Portus Veneris
non ebbero
difficoltà a
contrattarne la
cessione,
insieme alle
isole
prospicienti, ai
Consoli della
Compagna
genovese.
Era il 1113 e tutta l’attività degli
esperti si
riversò con
impeto fèbbrile,
ad erigere
quella che, come
una lapide
ricorda, fu
chiamata
ufficialmente
Colonia
Ianuensis e tale
restò fino alla
caduta della
Repubblica nel
1799. Com’era
nell’usanza dei
coloni genovesi,
vi fu costruito
un nuovo borgo
sullo stile dei
vecchi quartieri
della Superba:
Zena ciù ûn
carruggio!
era fino a
qualche anno fa
il pittoresco
intèrcalare dei
portoveneresi
per affermare le
loro origini
genovesi…
Su questa piccola Gibilterra in
formazione, in
territorio
lunigianese, si
era abbattuta
nel 1119 l’ira
ammonitrice
della potenza
navale pisana
(una Pearl
Harbour del
tempo!) e ciò
indusse i
consoli della
Repubblica a
rafforzare la
vecchia cinta di
mura ed a
costruirne una
nuova intorno al
nuovissimo
borgo. Si legge
negli annali del
Caffaro che ciò
fu completato
negli anni 1160
e 1161.
Verosimilmente,
il primo
annalista di
Genova
medioevale, che
fu otto volte
console della
Compagna,
commerciante,
ammiraglio
conquistatore
delle Baleari e
di Almeria,
crociato in
Terrasanta e
diplomatico
insigne, dovette
ammirare de
visu Porto
Venere e le sue
fortificazioni,
posto che così
ne scrisse: «erano
di così salda
imponenza, che
di poi, al
giudizio di
quanti per quei
luoghi
passassero,
l’aspetto di
quel nuovo
arnese togliea
loro ogni altro
pensiero. Cagion
di contento ad
amici e di
terror a nemici
pur ad
ascoltarlo».
A distanza di otto secoli, Porto
Venere ha la
prerogativa di
conservare,
pressoché
intatta, la
cinta delle sue
mura genovesi e
la vecchia porta
di accesso al
borgo del 1113.
Assai ben
conservato il
carruggio
principale; con
i carruggetti
dove si scorgono
tuttora i resti
delle case
patrizie
genovesi
distrutte dai
molti assalti
subiti dalla
piazzaforte nel
corso della sua
storia, ma
specialmente dal
grande incendio
del 1340.
Ancora salda e massiccia, sulla sua
base di marmo
portòro, la
barriera delle
case-fortezza,
sul fronte a
mare che,
insieme alle
mura, resero in
ogni occasione
imprendibile la
base genovese e
la darsena in
essa racchiusa.
Orbene, tutto ciò non dovrà
scomparire, come
è scomparso o
scomparirà a
Genova per
esigenze di
ordine superiore
che a Porto
Venere non
avranno ragione
di essere, ma
soprattutto si
dovrebbe cessare
dal sofisticarlo
con quelle
contaminazioni
edilizie che
hanno fatto
scempio di gran
parte del
patrimonio che
la natura e la
storia hanno
consegnato a noi
Liguri per
tramandare il
culto delle
nostre storiche
memorie.
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