|
Una eloquente
iscrizione,
ispirata dal
Formentini,
posta nella
chiesa di S.
Lorenzo in
Portovenere,
della quale ebbi
occasione di
trattare su «Il
Tirreno» del
16-9-54, ricorda
che l’insigne
monumento,
consacrato al
culto dal Papa
Innocenzo II nel
1130 (è del 1113
la fondazione
della
Colonia
Januensis),
fu onorato in
epoche
successive della
visita di ben
altri sette
pontefici; ma
non è ancora,
ch’io sappia, di
dominio pubblico
che a
Portovenere ha
avuto i natali
uno degli avi
d’un grande
pontefice
dell’epoca
attuale:
Benedetto XV.
Chi volesse
sincerarsene non
ha che da
chiedere al
reverendo don
Gerolamo Devoto,
un colto
sacerdote di
Portofino che ha
preso a cuore,
oltre a tutto,
con solidarietà
ligustica, la
storiografia di
Portovenere, di
consultare le
poche carte
ingiallite del
vecchio archivio
parrocchiale, in
gran parte
distrutto da un
incendio di
antica data. E
vi troverà che
il 17 gennaio
del 1715 nella
chiesa allora
denominata dei
SS. Pietro e
Lorenzo riceveva
il Santo
Battesimo un
bimbo nato il 14
dello stesso
mese «dall’Ill.mo
e Magnif.
marchese Joseph
Maria de
Ecclesia,
Commissario
della Casa di
San Giorgio, e
da Angela Maria
Antola al qualé
era imposto il
nome di Nicolaus
Maria».
Il marchese Nicola Maria Della Chiesa
è appunto il
trisavolo,
portovenerese,
del papa
Benedetto XV,
già
arcivescovo-cardinale
di Bologna. La
notizia può
avere importanza
anche a
dimostrazione
che, nell’epoca,
il rango
dell’antica
colonia non era
molto scaduto,
se Genova vi
manteneva
fiduciari delle
sue maggiori
istituzioni e,
del resto, basta
scorrere i
volumi sgualciti
degli Atti
ancora
leggibili, per
trovare, ad
esempio nel
1600, cognomi
spiccatamente
genovesi, quali
Bensa, Bemabò,
Cattaneo, de
Nigro (o de
Negri), Fasce,
Garibaldi,
Marcenaro,
Podestà, ecc.
Questi però si
vanno
rarefacendo
progressivamente
nei secoli che
seguono, pur
rimanendo tracce
degli Ansaldo,
Colombo, Lertora,
Noceti, Pozzo,
Traverso,
Queirolo, ecc.,
nello stesso
‘800, in cui,
cessata
l’influenza
politica
genovese, i
casati
portoveneresi
costituenti il
nucleo della
popolazione,
ridotta dai 3000
abitanti circa
del periodo
aureo a poco più
di un migliaio,
sembrano
stabilizzarsi in
quelli
d’origine, che
ricorrono con
maggior
frequenza nei
vecchi documenti
anagrafici, e da
considerarsi
quindi i veri e
propri aborigeni
nella formazione
antica del
paese: i
Bastreri, Bello,
Bertirotti,
Canese, Comiti,
Manfroni, Massa,
Nardini,
Portunato, Reboa,
Sturlese, Macèra
ed altri, mentre
sono pressoché
estinti casati
antichissimi
come i Capellini
(antenati
dell’illustre
scienziato
spezzino), i
Cidàle, i
Centinaro, i
Celle, i Vissei
e compaiono
altri casati di
provenienza
ligure e varia,
come I Baracco,
Bertalà,
Colonna, Cozzani,
Dondéro,
Duchiron,
Raviolo, Sola,
ecc. A volerlo
fare oggi, la
trasformazione
del paese
attraverso i
casàti dei suoi
abitanti
apparirebbe
ancor più
evidente; non
per questo il
pittorico
aggruppamento di
case-fortezza
arrampicate
sulla roccia ha
perduto il suo
carattere
spiccatamente ligustico, anche
se la vecchia e
gloriosa
bandiera di San
Giorgio non è
più fatta
sventolare sulle
torri, nelle
solennità,
com’era nelle
consuetudini
fino a qualche
anno addietro.
Non lo ha
perduto,
malgrado le
progressive
deturpazioni e
la rovina in cui
son lasciati il
castello e la
cinta turrita,
la più bella
delle Tre Torri
visibilmente
affumicata dallo
scarico di un
forno, la cui
canna fumaria
potrebbe essere
deviata con
modica spesa.
L’antico
castello
I turisti numerosi che visitano il
paese riportano
l’impressione
che le sole
vestigia
veramente
interessanti
siano la
chiesina di San
Pietro, con
l’annesso
Castelletto, e
la chiesa di San
Lorenzo,
provvidamente
ripristinati
sotto
l’amministrazione
Mori, e su cui
più si appunta,
anche oggi,
l’interesse
della
Sovraintendenza
di Genova. Ciò è
naturale, poiché
le antichità
sono tanto più
visitate ed
apprezzate in
quanto svolgono
funzione di
vestigia
operanti, quali
le due chiese di
Portovenere
aperte al Culto
ed in certa
misura il
castelletto di
San Pietro (il
castrum
vetus «
in excelso rupis
», certamente,
di origine
pregenovese,
descritto da
Ursone da
Vernazza nel
1242) e se si
vuole lo stesso
castello di
Lerici. Per
contro il
castrum superius,
l’inespugnabile
fortezza
tirrenica
ricordata da
Oberto
Cancelliere nel
1165, si fa
ammirare
soprattutto per
la desolazione
che vi incombe
dentro e fuori,
ciò che
contrasta con lo
stato, ben
diverso, del già
ricordato
castello di
Lerici. Anni
addietro erano
stati iniziati
restauri, senza
un piano ben
definito, ed a
quanto pare con
mezzi assai
limitati, ed è
certo che prima
di accingervisi
nuovamente
bisognerebbe
decidere cosa se
ne vuol fare,
pur riconoscendo
che migliorati
gli accessi e
tolte di mezzo,
o diradate, le
vegetazioni che
lo deturpano,
ripristinati
alcuni dei
locali, l’Ente
Provinciale per
il Turismo
potrebbe sempre
utilizzare detto
castello di
Portovenere in
manifestazioni a
vantaggio
dell’economia
locale, e quindi
dello stesso
Comune.
Giustamente Lucio Bozzano, in una sua
recente
inchiesta sui
piani paesistici
per la salvezza
della Liguria,
apparsa in vari
numeri di un
quotidiano
genovese,
concludeva con
queste parole: «Noi,
in Liguria,
abbiamo un
patrimonio che
se ha il pregio
di non poter
essere costruito
con le
ricchezze, ha
anche il difetto
di non poter
essere mai più
ricostruito, una
volta distrutto.
Esso, che ha un
valore...
commerciale per
i nostri bilanci
e per quelli
nazionali, ha
anche un enorme
valore morale e
spirituale per
noi e per tutti.
Dimostriamo di
saperlo
conservare».
E’ un monito
salutare, anche
per quanti hanno
responsabilità
diretta sulla
paesistica
portovenerese.
|
|